Recentemente mi sono imbattuto in un meme pro-natura che salta il valore della terra intesa come campagna coltivata. Il meme è costituito su una immagine che ricorda un modo antico di raccogliere i frutti, con cesti di vimini pieni di agrumi e mele, adagiati sotto gli alberi su cui, presumibilmente, è stata effettuata la raccolta. A indirizzarne il senso una potente didascalia: “La migliore banca è la Terra. Ci metti i tuoi semi e lei li fa fruttare gratuitamente“. So che si tratta di un meme un po’ vecchiotto, ma portate pazienza: non appartengo alle generazioni nate su Internet, né il lavoro mi concede troppo tempo per girovagare sui social, però, come si dice oggi, lasciatemi offrirvi i my two cents, for what they are worth. Da agricoltore, più precisamente olivicoltore, apprezzo il messaggio di fondo che vuole esprimere il santino social: un elogio della natura, della campagna, dell’agricoltura dai ritmi lenti. E’ un messaggio che trova facilmente sponda in un momento della nostra storia in cui ci sentiamo saturi di tecnologia, velocità, performance, antropizzazione, e in cui concetti come terra, territorio, comunità, stanno riacquistando forza. Tuttavia lasciatemelo dire: chi ha inventato il meme della terra-banca forse sa usare photoshop, ma non ha mai preso una zappa in mano in vita sua. Un cittadino che si trova a leggere un messaggio del genere crederà che i frutti crescano sugli alberi!
Perché la terra non è una banca (e il meme è ingenuo)
D’accordo i frutti crescono sugli alberi, ma non nel senso del modo di dire (o del meme): lo scopo delle piante è generare nuove piante figlie, non far crescere sani e forti gli esseri umani e nutrirli in salute fino a tarda età (e ancora meno far arricchire i contadini). La varietà, l’abbondanza, il gusto e (ancor di più) la qualità dei prodotti agricoli sono il risultato dell’opera di contadini e agricoltori, che investono risorse, tempo e pecunia nel modificare e guidare fatti apparentemente naturali. Le probabilità che un seme gettato nel terreno e poi dimenticato si trasformi in frutti sono le stesse che un figlio cresca sano ed educato senza genitori e senza scuola. Certamente la ricerca spasmodica di produttività e l’applicazione disinvolta di metodologie sviluppate per le fabbriche ha sacrificato la qualità e salubrità dei prodotti, la fertilità dei terreni, la biodiversità e, talvolta, ha compromesso falde acquifere e corsi d’acqua. Ma l’agricoltura sostenibile, di qualità, sana, non richiede meno sforzo, non lascia alla terra il grosso del lavoro, al contrario: richiede molte più ore-uomo per produrre le stesse quantità, operai con maggiori competenze (e quindi maggiore remunerazione), prodotti più costosi e procedimenti più lenti.
Nemmeno le olive “crescono sugli alberi”
La terra costa, l’acqua costa, costano carburanti, mezzi e strumenti, costano i trattamenti delle piante e gli adempimenti burocratici, ma soprattutto costano le persone. L’agricoltura è un settore che raggiunge gli onori della cronaca troppo spesso per casi di sfruttamento dei lavoratori: una situazione sulla quale non si riesce ad intervenire in modo definitivo perché, di fatto, lo sfruttamento è un modo di calmierare i prezzi e consentire alle derrate alimentari di raggiungere i mercati a prezzi sostenibili. Il problema non ci riguarda: il prezzo finale dei nostri prodotti è formato dalla qualità delle materie prime, dalle metodologie di produzione e dalla giusta remunerazione di operai e tecnici. Le battaglie per l’ambiente, la salute e la dignità del lavoro si combattono anche in tavola. Ma quali sono questi lavori che impegnano tutto l’anno gli olivicoltori? La stagione più impegnativa per un produttore di olio è certamente l’autunno: in quei 3 mesi si concentrano la raccolta e la molitura delle olive, attività che impegnano 7 giorni su 7, di giorno e di notte (i frantoi lavorano anche durante la notte), precedute dalla manutenzione e lavaggio di cisterne e macchinari per la molitura. Nelle altre stagioni l’impegno è più diluito, ma è comunque intenso: almeno due volte l’anno c’è la potatura, operazione che richiede di dedicare anche 20 minuti a pianta, almeno due volte l’anno, a cui segue lo smaltimento delle ramaglie. C’è l’irrigazione, imprescindibile in estate nei primi anni di vita delle piante, ma necessaria anche per gli alberi più grandi durante estati particolarmente torride e la concimazione che, ben dosata, rende le piante più forti e le olive migliori. Ci sono i trattamenti contro i parassiti e le malattie, diversi ogni anno, o le misure di protezione da gelo, neve, grandine e stagnazione dell’acqua. C’è la pulizia del terreno, con operazioni meccaniche, o tramite pacciamatura. C’è poi tutta l’attività da cantina, legata alla gestione e al mantenimento dell’olio sfuso nelle cisterne e all’imbottigliamento e etichettatura. Ci sono poi le onerose attività amministrative legate alla tracciabilità del prodotto, alle certificazioni di qualità e di origine (DOP, IGP, BIO, monocultivar, olio di montagna). Tranne i soggetti che entrano nella filiera dell’olio extravergine di oliva solo per offrire servizi di molitura conto terzi (i frantoi dove i privati e le piccole aziende portano le olive a frangere), chi lavora nella filiera dell’extravergine è impegnato tutto l’anno. Giovanni Abbo